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March 2020

ORIONE 9

Racconto breve

 

 

 

Giorno 456 dopo il blackout

 

Potevo vedere chi non c’era. Per la maggior parte delle persone che abitavano il nostro quartiere non esistevamo. O almeno gli era impedito vederci.
Entrambi senza niente e senza nome. Da li potevo vedere bene il pezzo mancante di velcro della sua giacca nera opaca. Non lo dimentico. Non ero molto distante; tanto bastava per non perderlo d’occhio. Dovevo; era il mio compito.

Avrei saputo poi che quella giacca non gli sarebbe più servita, come qualsiasi altro vestito.
Però in quella stazione nel quartiere Orione 9 della colonia di Giove non potevo non notare la sua cravatta a righe blu. Posso dire solo ora che qualche filo di cotone era spento e non funzionava o al limite sbiadiva ad intermittenza; probabilmente era un avvertimento, ma non potevo con- cedermi nessun errore. L’uomo ormai completamente calvo non sembra- va turbato; molti come lui dopo le prime ondate di radiazioni della fascia rossa non avevano più nessun pelo in corpo, e si coprivano la testa con quel tessuto bianco traspirante che ormai era venduto ovunque, sopratutto nei negozi femminili. Da li a poco si sarebbero coperti tutti, sia per moda che per vergogna, anche gli uomini. Nessuna distinzione. Ma lui no, non aveva mai prestato grande attenzione a questi dettagli che poi scoprii inutili.

Stava aspettando la cabina che l’avrebbe portato al confine del quartiere recluso per vendere l’ultima cosa che gli era rimasta e che lo rendeva uno come me.
In quel periodo le nano particelle ancora si potevano sostituire in un semplice negozio di sartoria che non era affiliato al partito, altrimenti venivi subito riconosciuto.
Ricordo che intorno a noi era pericoloso anche solo sfiorare le persone, come da alte e precise direttive. Eravamo lontani l’uno dall’altro. Per loro era solo una questione di abitudine sociale ormai, per noi era questione di vita. Io il lavoro ce l’avevo, mi dissi, ma a quali condizioni? Poche ore prima l’uomo aveva ricevuto la chiamata e ricordo ancora la stranezza della sua reazione. Alla stessa chiamata molti non reagi- vano più per paura che il processo si sarebbe accelerato anche solo per aver osato esprimere disappunto verso l’ordine. Io ero dietro un vecchio distributore di biglietti del treno, ormai usato come antenna quando il coprifuoco abbassava tutte le ricezioni. Lo vedevo. Sorrideva. Io non ricordo un sorriso sul volto di noi invisibili dall’ultima volta che vidi sua madre. E fu l’ultima anche per lui.

Alzando il dito e portandolo all’orecchio aveva saputo da me che da li a pochi giorni non sarebbe stato più utile a quello che spacciavano per so- cietà e il programma di ripopolamento era concluso o quantomeno avevo saputo che c’era stato un cambio di gestione nelle alte sfere. Orione 9 non tollerava la scarsa produttività. Non aveva più un’occupazione nel quartiere da quando alzarono la fascia QI. Io nemmeno lo ricordo, ero troppo giovane. E ancora il programma d’istruzione aveva una parvenza di stabilità.

Lui non aveva una grande istruzione ed era riuscito fino ad allora a vendere biglietti per le barche di nascosto. Le barche famose che spostavano sia gli umani che gli invisibili dalla colonia Giove alla colonia Saturno attraverso quel fiume sospeso di cui tanti poeti fino ad allora e anco- ra adesso scrivono come di qualcosa mai visto prima. Ecco, sua madre sorrise per l’ultima volta pensando a quello; almeno mi allieta pensarla così. I lavori per gli invisibili erano ancora più inusuali e richiedevano grandi capacità intellettive. Era un uomo pratico, gestiva bene documenti, passaporti e licenze. Il digitale era il suo mestiere e vendere biglietti ancora lo salvava dalla strada più nera e deserta, ma l’avvento delle reclusioni forzate e l’obbligo del ripopolamento lo aveva stroncato. Anche dove potevi nasconderti, loro ti vedevano.
Così ero li ad assistere alla sua reazione.
Credo che la prima cosa che pensò in quel momento fosse la fuga ma come capii poi, era un uomo di grande furbizia. Quel sorriso, per fortuna, lo notai solo io.
Anche io dietro di lui salivo sulla cabina per vedere che mosse avrebbe fatto di lì a poco, convinto che anche il mio lavoro, con lui, sarebbe concluso.
La cabina era sporca e odorava di Skritz. Quelle caramelle le avevano in bocca tutti, evitava che il contagio si spargesse ancora di più. Ricordo la bocca dei passeggeri che si illuminava di blu ogni volta che si apriva e anche le cabine sembravano avere un tocco di disarmante vitalità. Si accendevano di un tono diverso a seconda del livello di tossine in corpo. Le classi più avanti erano sempre illuminate di un azzurro molto tenue; le cure mediche non erano per tutti ad Orione 9.
Mentre la cabina si fermava avevo visto con la coda dell’occhio l’uomo affrettarsi all’uscita; iniziava ad essere nervoso forse, avevo pensato. Le strade erano devastate e la mia capacità di riconoscere cosa ci fosse prima era scomparsa; forse lui riusciva. Il sarto l’aveva trovato molto velocemente.
Sapeva che con la vendita delle sue nano particelle non sarebbe stato più uno di noi, ma uno di loro, perdendo anche l’ultimo privilegio che gli era rimasto. E vivere senza niente con la possibilità di essere visto da tutti era pericoloso anche all’esterno di Orione.
Aveva guadagnato 230 Nitts dalla vendita, giusto il costo del biglietto che un tempo si sarebbe potuto permettere senza fatica.
L’unica sua ragione di vita da lì in poi sapeva che sarebbe stata la prospettiva di una possibile serenità su Saturno, nelle colonie sotto la Earth Valley. Ancora non capisco come possa essere rimasto questo nome da quando gli antichi terrestri scoprirono le prime immagini del pianeta ormai centinaia di migliaia di anni fa.
L’uomo in quel momento non aveva più nessuna casa, nessun soldo e sopratutto nessun diritto. Io iniziavo in quel momento a sentirmi disarmato e sedendomi su di uno scalino ad aria accanto ad una raffineria in disuso, lo osservavo. Steso in un angolo aspettava che si sarebbe fatto giorno per tornare a piedi al porto ed imbarcarsi, ormai non poteva più usare le cabine, né di giorno né di notte.
Io lo fissavo e non potevo fare niente nemmeno quando vidi che una piccola donna vestita di Vantablack si avvicinava in maniera ambigua intenta a controllare cosa poteva rubare. Lei mi vedeva ma non indugiava a rovistare tra i vestiti dell’uomo.
Sono sicuro che in quel momento poteva sognare soltanto una cosa: il suo viaggio che avrebbe fatto il giorno successivo, attraverso quel mare in cielo, appeso nell’universo sulle barche che i più umili come lui ancora insistevano a chiamare ali magiche. Attraverso i finestrini d’aria poteva scorgere le colonie private di filantropi arricchiti lungo tutto il tragitto lungo soltanto 800 milioni di kilometri, un tempo sarebbe stato ancora più facile. I miei nonni raccontavano ancora che vedevano la notte la colonia di Saturno proprio da qui, da Giove. Per questo Orione 9 è diventata negli anni così famosa e nota cornice di molti miti e storie, compresa questa.
Con il passare del tempo iniziavo a chiedermi come saremmo potuti di- ventare amici e se fosse stato un bene tentare di scappare in quel modo, credendo possibile una nuova vita su Giove. Forse sarebbe stato meglio morire da umano, o quasi umano.
Non lo era più nessuno in realtà.
Mentre dormiva, ancora li accasciato a terra, ricordo che gli sentii pronunciare una frase: “il divino esiste”. Per lui il divino era davvero un qualcosa di tangibile e reale. Quando fin da bambino scorgeva dall’oblò della camera del sonno quei cerchi giganti, che si facevano largo tra le nubi d’argento del nostro pianeta non poteva fare a meno di pensare al mondo al di fuori del degrado di Orione. E quella vista rappresentava davvero per lui un’alta aspirazione spirituale.
Anche dopo l’ultimo blackout la periferia di Orione 9 non aveva tentato minimamente di ripristinare l’illuminazione nel campo ottico ma solo quella nel campo degli infrarossi, per poter dare possibilità ai vigilanti di controllare ognuno di noi. Ormai non mi sentivo più osservato, ma osservavo lui.
Si sveglia. Si guarda intorno e non capisce perchè quell’uomo lo fissava in modo ossessivo.
Non capiva come potesse essere ancora li, nonostante tutti i suoi piani e la volontà di scappare da quell’orrore che era ormai quel buco di mondo. 

Una scarpa gli era stata sottratta dalla donna in nero, per via dei lacci a fibra ottica che al mercato nero ancora potevano essere accettati.
Un tempo i sensori si istallavano anche sui peli corporei per soccombere al caldo tremendo che non permetteva sempre di vestirsi in modo pesante e ingombrante, anche se ormai tutto si concentrava su piccoli residui di particelle nei vestiti di cotone, per i meno abbienti. I più ricchi ave- vano peli sintetici, anche in testa, colmi di fibre iper connesse al mondo esterno.

Eth non era un uomo facoltoso, ma quella mattina si svegliò ricoperto di peluria.
Eth era diventato un Onagro.

Giorno 457 dopo il blackout

 

Eth aveva vissuto fino ad allora come un uomo invisibile, ma operoso e sognatore. Ora era uno degli ultimi animali rimasti vivi ad Orione 9. Come poteva passare inosservato?
Aprendo gli occhi la vista era offuscata dai fumi provenienti dal vapore acqueo della pioggia ricca di minerali acidi che aveva appena bagnato le luci al neon sopra di lui. Si sentiva stanco e umido.Ancora non aveva realizzato la sua metamorfosi.

Iniziavano a radunarsi persone nell’angolo buio intorno a lui. La parte periferica di Orione era composta prevalentemente da ex produttori di ferro e leghe metalliche varie ormai senza lavoro e come Eth si arrangiavano scambiando ciò che riuscivano a far proprio durante le notti scure. Erano abitanti comuni, a volte dimenticati anche dalle autorità di vigilanza.

In quel momento sedevano in gruppo in quell’angolo che sarebbe diventato poi simbolo della periferia. L’uomo che lo seguiva si era distaccato dalla folla, forse perchè intimorito dalla brutalità della situazione o forse per un qualche mal riposto senso di colpa che lo avrebbe attanagliato di lì a poco.

Erano certi che quell’animale apparso dal nulla fosse già in via d’estinzione all’epoca dei terrestri ma le popolazioni locali avevano una buona cultura in fatto di biologia e allevamento di varie specie; il ripopolamento sarebbe dovuto partire dalla bio diversità fin dalle prime colonie. E’ certo che poi tutto andò in fumo e lo spazio abitato anche fuori Orione 9 non aveva minima traccia di una fauna locale. Si potevano scorgere degli ibridi ogni tanto a spasso con i filantropi arricchiti oppure nelle abitazioni e negli uffici degli alti ufficiali nel centro della colonia. Erano per lo più razze canine estinte e uccelli che utilizzavano per il conteggio della popolazione nelle adunate poco prima del coprifuoco appena fuori il distretto militare.

Un asino selvatico non aveva mai varcato lo soglia delle colonie di Giove.
Ma ecco che quella mattina, che ormai non era più come tutte le altre, era proprio lì davanti ai loro occhi. La bestialità di un animale di cui co- noscevano le caratteristiche solo in teoria presa dai vecchi libri scolastici di Storia, ora si manifestava orribilmente.

Una vecchia signora estrae dalla sua sacca un piccolo mazzo vegetale coriaceo a base di silice. L’animale si era alzato a fatica prima sulla zampe posteriori e poi su quelle anteriori, che però tremavano e lo sor- reggevano a fatica. Cercava di avvicinarsi alla mano protesa dell’anzia- na signora, quando un urlo proveniente dalle retrovie della folla fecero scappare l’animale, lasciando sul posto i vecchi ricordi umani di Eth. Di umano non c’era più niente.

Io ero senza parole e non riuscivo a comprendere ciò che poi mi sarebbe stato chiaro in seguito, ignorando che dall’alto ancora mi stavano osservando. Al momento non capivo quale sarebbe stato il mio lavoro da lì in poi e che ne sarebbe stato di Eth.

La consueta pioggia acida che oscurava i cieli da molti anni iniziava a bagnare la folla che in breve tempo si spostava dall’angolo della strada verso i ponti che sostenevano le strade per le cabine pubbliche di movimento. La mia visuale diventava più chiara ma faticavo a capire dove fosse scappato l’animale e quanto potesse essere veloce rispetto a prima. Non eravamo più alla pari. Non poteva essere più il mio lavoro.
Il tramonto sembrava faticare a calare quel pomeriggio; ogni pannello luminoso che fluttuavano accanto ai marciapiedi bagnati di quella periferia mostrava solo un breve filmato dell’asino selvatico scappato da Orione9. Era l’unica mia traccia da poter seguire seguire.

Le ore passavano e la notizia era ormai uscita anche fuori il nostro distretto, ma anche gli avvenimenti così assurdi per noi all’epoca non potevano smuovere la vita caotica della neo Metropoli, ma rimaneva tutto sommerso, muto, tra l’etere che connetteva e scollegava ogni caso nello stesso momento.

Facendo la strada di ritorno ripensavo allo sguardo di Eth e di quali fossero i piani dopo la mia chiamata, ma come potevo pensare che ancora esisteva quell’uomo?
Sulla cabina per rientrare ad Orione 9 l’ultimo reparto era vuoto, non era illuminato da nessuna tonalità di blu ma il mormorio delle persone era sicuramente cambiato perchè un altro suono aveva invaso i dispositivi di ognuno. Non tutti sapevano cosa fosse ma era la prima volta che sentii ragliare l’asino. Era ovunque e iniziavo a capire che si conoscessero il suo segnale di provenienza. Non potevo non esserci arrivato prima. Ricordo il drone volare sulla folla gremita che osservava l’asino fermo davanti al porto.

Io ero dietro tutti ma riuscivo a vederlo tramite la ripresa trasmessa ovunque. Era fisso con lo sguardo verso il fiume; lo stesso fiume che aveva sognato come unica possibilità di rinascita. In quel momento rappresentava il suo orizzonte che si spingeva sempre più oltre mentre non poteva muoversi o fare nient’altro, perchè le sua nuova carne gli era di ingombro. Ricordo la fatica nei suoi occhi e la paura che mi trasmetteva nonostante una zampa rotta e la corda di metallo che lo aveva ormai imbrigliato. La paura in tutti noi aveva già preso il posto dello stupore. Iniziavo a farmi spazio a forza tra la folla nonostante non potessi farmi notare in nessun modo, ne andava della mia stessa vita, ma, oggi posso dirlo con ancora più convinzione, non potevo rimanere immobile e rinunciare al suo sguardo. Infatti ero li, alla fine sul suo presunto viaggio interrotto, incrociando i suoi occhi. Avrei voluto fare di più.
Sotto quel cielo fumoso nel distretto poco fuori Orione 9 oggi ancora mi abbaglia la sua volontà repressa di scappare e varcare i cieli, imma- ginandosi bagnato da quel fiume magico che attraversa tutte le nubi di Giove e si riversa nel nulla cosmico.

Ne avremmo parlato molto in seguito di quel momento vissuto al porto di Orione e di come quel casuale e improbabile risvolto avrebbe consentito a noi oggi di scriverne insieme in libertà senza sentirsi minacciati l’uno dall’altro.

La nostra storia non si è conclusa nella confusione di quel porto umido ormai secoli fa, ma lì tutto è iniziato.
Nella colonia avrebbero iniziato di lì a poco a chiudere ogni ingresso, a staccare ogni comunicazione pubblica e il trasporto veniva concesso solo alle alte sfere militari. La comparsa del primo animale dopo millenni che non avevamo traccia di un essere certamente la cui provenienza così ambigua, ma totalmente biologico e misteriosamente antico per la comunità, innestava in ogni abitante di Orione9 dei dubbi atavici e dimenticati per troppo tempo. Qual era il vero ruolo e il rapporto delle persone, degli invisibili, della classe filantropoica benestante e quella militare? La risposta di Giove e delle colonie attorno andava verso un disfacimento totale di ogni preconcetto fin lì offerto alle popolazionicome dogma da seguire con la forza.

Il grande fiume sospeso offerto come speranza a pochi eletti sembrava assumere una nuova valenza, anche simbolica grazie all’animale. Quell’immagine stava per diventare la raffigurazione metaforica più forte del secolo che dimostrava la forza emotiva di un asino selvatico di fronte alla devastante complessità del rapporto con la natura come totale attaccamento alla connesione tra le forze invisibili e inespresse, come la volontà di scappare, di osare, di gridare alla colonia che un altro sistema era possibile.

Avrei potuto dire tutto questo davanti a quella folla gremita, ma la mia bocca non riuscì ad emettere alcun suono
Per ora, sotto il cielo di Saturno contornato da nuove colonie autonome in costruzione, concludo questo racconto che spero avrà un seguito di- gnitoso, narrandovi come abbiamo abbattutto quella barriera tra noi e l’infinito immaginativo.

Continua.....

Enrico Finazzi

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