top of page

Ottobre 2020

INVERSIONE DI CAUSA/EFFETTO NELL’EVENTO

EMOTIVO FILMICO: SE NON GUARDO NON PROVO

NIENTE; SE VIVO,NEMMENO.

INTENZIONI DI UN SOGGETTO

E DI UNA NARRAZIONE DI UN

IMMINENTE ANNIENTAMENTO.

 

“SINE ACIES, RECTA, VORAGO”

 

 

 

Essere capaci di descrivere in modo chiaro un proprio pensiero vuol dire ricomporre una sorta di puzzle composto dalla moltitudine di collegamen- ti che produciamo costantemente a livello di contesto, argomenti, ipotesi e conclusioni che si diramano come elementi autonomi nella mente. Ne siamo a volte succubi e passivi rispetto al nostro pensare che per lo più consideriamo la nostra ragione di essere; non a caso “ cogito ergo sum”, ma forse è meglio dire “cogito ergo destruo”, cioè scompongo, distruggo. Consideriamo il pensare una struttura precisa e funzionale. Immaginate un file compresso nella nella vostra mente e immaginiamo la chiave per esternarlo nella vita reale tramutando le argomentazioni in parole dette, scritte, urlate, oggetti dipinti o film girati. Esplodere in silenzio. Lo scopo è aprire il file che pensiamo sia quello generale, il flash senza ordine che ci inganna, e la chiave è la sua destrutturazione, la separazione del tutto in piccoli file a loro volta inseriti in cartelle legate in modo più o meno “sereno”, direi addirittura poco autentiche rispetto alle fonti. La connessio- ne gliela forniamo noi. In apparenza nulla è codipendente, unito da una

forza che esiste a priori, cioè “questo pensiero” non si lega a “quest’altro” per assioma. Noi, dando la chiave, apriamo il concetto e buttiamo all’aria tutto il file compresso che stava agitando non solo la mente, ma il corpo attraverso azioni indotte. Per far capire cosa intendo con la locuzione “imminente annientamento” come dice il titolo, devo prendere il file prodotto, trovare una chiave e plasmarlo di forme che sono espressioni di interazioni e dialogo con gli altri.

Oggetto, chiave, obiettivo, risultato. Io non avevo idea di come essere più onesto e coerente possibile con il pensiero originale, senza essere contami- nato dai comuni metodi di reindirizzamento sulla realtà: già questi con- cetti sono frutto di una scomposizione programmata e forzatamente schematica. L’oggetto originale che mi ha portato a scrivere questo stato del pensiero si è riorganizzato sotto forma di un soggetto per una narrazione parallela, che può riguardare una rappresentazione visiva, una rappresen- tazione di una rappresentazione costituita da così tante scatole cinesi che arrivare alla liberazione del moto originario è forse impossibile. Forse esi- ste una chiave al di sopra delle mie presupposizioni e al di sopra di ogni altro procedimento cognitivo?

La chiave è assumere per regola generale il concetto madre estratto dal- la radice che vogliamo mostrare e possedere come risultato finale, usarla quindi come metodologia per esporre l’argomentazione. La chiave può presentarsi in qualsiasi forma e input finale.

Perciò io racconto a voi questo “pensiero forma”, prendendo come chiave proprio lo stesso pensiero che spero si auto definisca, prenda forma da solo e gettandolo sul tavolo delle miliardi di idee che produciamo possa avere una propria coerenza.

Questo è un film/cortometraggio, proprio questo, qui, ora e la parte interessante sono già i titoli di testa costituiti solo da anagrammi. Il suo titolo è “SINE ACIES, RECTA, VORAGO”. Una ragazza sordo muta cammina per strada e ha di frequente degli episodi di acufeni, dei fischi che la fanno

accasciare di colpo toccandosi l’orecchio. Le creano disorientamento e non sta bene. Vede attorno a se che le altre persone hanno smesso di comuni- care o parlano senza conoscere la propria lingua, non ci sono dialoghi ma solo autoproclami tramite monologhi o soliloqui. Le persone hanno perso la capacità di dare un nome alle cose. La loro bocca è deformata. Nella sua tasca però c’è un biglietto su cui continua scrivere e inventare anagrammi di una parola che ancora non le è chiara. Ha il vizio di strappare pezzetti di carta e portarli all’orecchio strofinandoli per cercare di udire qualcosa. Continua a scrivere e cerca di trovare la soluzione, di un problema che in realtà non esiste. Le persone metaforicamente cominciano a sparire ma a livello di messa in scena, come vedete, accade che soltanto che molta meno gente appare attorno a lei. E’ sempre più sola. Le persone continuano ad esistere nella sua realtà ma non le percepisce più, non hanno più un ruolo sociale. Siamo immersi in una folla che va di corsa, sprecando parole e creando solo brusio, almeno quello che anche noi percepiamo. Brusio che insimee al fischio che gli tormenta le orecchie cominciano a diventareossessivi, per lei ma anche per noi: lo sentiamo, empatizziamo. Non sente parole ma solo un sottofondo irritante, nonostante la sua condizione; non dovrebbe riuscire a sentire niente. E’ il brusio di fondo della non coscienza di sé che pervade il mondo. Si blocca nuovamente per un altro fischio acuto e man mano che la messa in scena cambia, cambiando anche location, cambia il modo di rappresentare lei dentro al suo mondo, ma non le sue intenzioni e la volontà di potenza. Lei ne è ovviamente all’oscuro. Le intenzioni sono date dal background del personaggio su cui molto è costruita la narrazione; poco o nulla è veramente mosso da un rapporto di azione-rea- zione o causa-effetto, ma le cose accadono “ perché devono accadere”. Le azioni mostrate non devono avere attinenza con la narrazione principale, il modo in cui vediamo rappresentato qualcosa non è la cosa stessa, che invece è il sottofondo di angoscia descritta per climax ascendente, proprio per indicare sconnessione totale tra i metodi di comunicazione, compreso

il linguaggio cinematografico stesso. Non consciamente, lei vuole estraniarsi e non si connette con gli altri. Lei esiste accanto, ma non insieme. Inizia ad esserci sempre meno gente fino a ritrovarsi sola e questa volta di intuisce che la narrazione subisce un brusco cambiamento e le perso- ne spariscono, cessano di esistere anche fisicamente; il livello metaforico comincia a sgretolarsi, capendo alla fine che non esiste più nessuno. Si trova ormai da sola a guardare nel vuoto. Finalmente non c’è più tutto il vociare della folla, ma intuiamo che gli acufeni erano un richiamo misti- co. Le persone si sono autoannientate perché la loro parola sprecata ha causato loro un autoannullamento tramite una sorta di autocannibalismo. Mangiare le parole significa mangiare se stessi annullandosi come esse- ri pensanti perciò inutili anche come metafora cinematografica. Ora si è persa anche la carnalità. Mischiando diegesi sonora, visiva e fuori campi. Non è data importanza al realismo scenico, ma tutto si gioca a cavallo tra metacinematografia e narrazione che si auto compie man mano che si va a concludere perché è necessario “che sia così e in nessun altro modo”.Come se l’obbiettivo sia un concludersi prestabilito e non un’evoluzione inaspettata, ma credibile. La loro non presenza è chiamata a sostituire le loro bocche deformate, forzatamente spalancate e bloccate in un urlo si- lenzioso, se non un piccolo particolare nel finale che appiana tutto e risol- ve l’autonarrazione di un dentro e fuori che destabilizza prima me stesso e lo stesso scritto.

Lei alza lo sguardo e vede la Sicilia dove in realtà dovrebbe esserci il sole, proprio nel punto in cui non si potrebbe avere nessuna capacità visiva, e ne rimane abbagliata, ma sorride per la prima volta, perché non avendo mai avuto la capacità di parlare arriva, solo ora, ad avere una sorta di vi- sione mistica tra il reale e il fantastico, molto terrena, però estranea a lei,come fosse una spettatrice. Lei è serena capendo di trovarsi nel posto giu- sto proprio perché gli acufeni sono cessati, ma la sua strada non è conclu- sa. Questo particolare della visione è del tutto reale seppur metaforico per

lo spettatore che inizia a credere al “ non realismo “. L’empatia fuoriesce dalla narrazione e la sospensione dell’incredulità consente l’amalgamarsi dei piani ontologici. Questo porta la ragazza a non riconoscersi più in una normalità accettata, anche se già consapevolmente disabile. Si tocca più volte la bocca e intuiamo che lei, l’essere obbligato a trattenersi dal parlare e dall’ascoltare, non ha più nulla da dire, in maniera drastica nemmeno potendo, perchè non c’è più nessuno in grado di farlo. Lei resta sola, gli altri si autoannientano. La disabilità come autodifesa della specie incapace ormai di autopreservarsi e sostenersi a vicenda.

In quanto essere umano pensante, però, inizia ad avere lei stessa una pa- ralisi alla bocca; ha un’ultima distonia e tutto si chiude così. La solitudine del caos ha distrutto anche chi della parola non può farne uso. Sul biglietto che lei aveva in tasca appare la parola “Eferonlo” come soluzione dell’anagramma. Eferonlo è l’essere intrinsecamente incapace di dare significati ai significanti. Di dispiegare la propria mente. E’ un pupazzo che mangia se stesso come appunto la lingua parlata può annullare l’essere umano. Que- sta parola sarebbe difficile da pronunciare e districa i muscoli facciali e la lingua come segno tangibile che la parola stessa agisce sul corpo fisico. La chiave forse ora è capire su quale piano ontologico si colloca questo film o questo trattato di linguaggio e di narrazione visiva, ipotetica o reale che sia. La destrutturazione del linguaggio è fondamentale per la comprensio- ne dell’intera narrazione, sia che ci si trovi dentro o fuori, che vuoi siate i lettori o gli scrittori, che siate i protagonisti o gli spettatori. La domanda forse è in quale di queste realtà multistrato tentiamo di auto collocarci? Ma soprattutto quale elemento del meccanismo di comprensione cerchiamo di rappresentare.

Forse siete proprio voi stessi la chiave per destrutturare il file.

Enrico Finazzi

EFERONLO
bottom of page