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Ottobre 2019

LA GENESI DELLA METODOLOGIA CREATIVA

 

Perché “Contrast Marker Liquid”?

Come provi l’esistenza di qualcosa che non vedi?
Come provi la presenza di uno scarto utile artisticamente?
Dalle esperienze cliniche personali ho dovuto trarre un senso, probabilmente per pura necessità. A volte basta questo per avere una motivazione artistica che spinge alla ricerca di altro, un “altro” confortante; per molto tempo ricercare la spiegazione dei sintomi neurologici che mi hanno tenuto prigioniero, e mi debilitano tutt’ora, attraverso analisi a me allora sconosciute mi ha solo portato a concepire la mia condizione come un loop senza fine.
Era una malattia rara, ancora non scoperta e certificata, ed è bastato un gene mutato per debilitare il mio stato neurologico, muscolare e psicologico.
Insomma, tutto era collegato in modo sottile e impalpabile. Uno strato invisibile 

che separava ogni comparto della realtà che al tempo mi sembrava completamente distorta. L’ospedale mi condizionava e i macchinari mi aprivano come un libro per il quale ancora non c’è un modo per una corretta interpretazione. Ero condizionato dal DNA mutato.

Psicologicamente instabile perché una relazione tra la mia mente, il mio cervello, il mio corpo, la mia discendenza, le diagnosi poco chiare e le pastiglie sempre più numerose non era ben definita, stavo probabilmente metabolizzando molte nozioni e saperi che al tempo odiavo e che ora mi tornano utili.

Per esempio, cosa collegano i geni, il sangue, la visione del cervello sotto TAC e i sintomi che esplicitano tutto quanto c’è di nascosto?
Ciò che mi colpisce ancora adesso è che l’importanza delle componenti in una ricerca (ora anche artistica) non è strutturata come in una piramide alimentare o come la classica e antica piramide sociale che si studia alle scuole elementari; ma la cosa più importante che può risolverti una situazione poco palesata non è sempre l’ultima cosa che viene a galla, proprio perché ciò era già lì. Quando cerchi qualcosa, prima o poi si paleserà un risultato, sia esso positivo o negativo, che renderà utile la ricerca stessa. L’oggetto della ricerca non è sempre la chiave.

Ma un mezzo, un liquido, un semplice tramite, un filo conduttore ben visibile può essere più importante di qualunque metodo, macchinario e pensiero.
Il liquido di contrasto negli esami medici del cervello può essere un esempio.
E calza molto bene per continuare la mia storia, semplice, ma davvero scatenante per tutto il mio pensiero successivo.

Un mezzo serve per poter cercare qualcosa che altrimenti sarebbe poco... colorato. Sì, colorato.
Il colore attrae, viene messo in risalto rispetto a un’immagine nera e poco dettagliata, questo anche semplicemente nel panorama visivo e fotografico che abbiamo davanti ogni giorno.

Il contrasto rivela la verità. La verità che la realtà tangibile tiene nascosta perché troppo importante da far sapere a tutti, da renderla pubblica e sotto gli occhi disinteressati. Probabilmente questo è lo scarto artistico. 

Solo il mezzo. Ciò che una volta adoperato va scartato e messo da parte perché la ricerca deve avere una finalità e una conclusione.
La mia ricerca artistica non implica una finalità visuale retinica e una conclusione determinata e ben confezionata. Probabilmente la mia ricerca è proprio l’oblio; o meglio, quella linea colorata che determina la sua esistenza. Per vedere il buio serve qualcosa a cui cammini attraverso.

Anche concettualmente. Questo concetto si è impiantato nel mio cervello proprio come ciò che al tempo mi veniva ricercato come causa di danni. Ora mi è utile.

Non credo di ringraziare nulla o di incolpare nessuno, ma questo è ciò che posso dire a posteriori senza rancori verso la mia condizione. E proprio secondo questo ragionamento per parlare dei miei lavori, al di là di quest’ultimo lavoro chiamato proprio Contrast Marker Liquid, non parlo del significato o del significante dellavoro stesso, ma delle modalità e dei percorsi che si susseguono prima della vera realizzazione fisica del lavoro.

Un lavoro visuale, fisico e apparentemente appagante dal punto di vista della soddisfazione creativa non è altro che un liquido esso stesso all’interno del mondo dell’arte in cui si insinua. Ne dimostra le fragilità, ne porta fuori le caratteristiche più interessanti, ma un aspetto fondamentale è che il lavoro creativo finale ruba lo spazio all’interno di una moltitudine di altri lavori che si intrecciano e dialogano. Così ci si domanda quale sia il lavoro vero e proprio e a chi appartiene una volta immesso in un circuito che non è ben chiaro e limpido nemmeno a chi ci viveall’interno.

Il lavoro è sempre per me percepito come il negativo di una fotografia che non viene apprezzata in un primo momento per questioni puramente soggettive, estetiche, e che con una piccola, ma radicale, modifica strutturale può cambiare tutto il significato. Iniziare a vedere la vera essenza del lavoro significa, per esempio, vederlo da dietro, cambiare prospettiva o, in questo caso, invertire i colori e iniziare a mentire, anche a se stessi.

Menzogna come cambio radicale di prospettiva visiva e concettuale senza apparente motivo utile. L’utilità è la menzogna stessa, come la condizione che ho sempre dovuto nascondere per impersonare la normalità accettata dalla massa.
È in questa accezione che l’arte per me è bugia; è inversione dei parametri normali e destabilizzare il contesto circostante la tua “banca dati”, il database da cui trai ispirazione.

Il metodo è la chiave, quando parla di se stesso.
Tutto ciò è per me collocabile poi in un ambiente e contesto postmoderno e postumano.
Il digitale fa apparire la mutazione ancora più atipica e fuori dal tempo.
Mondi che si intralciano e comunicano, quello reale e quello apparentemente etereo e non collocabile in uno spazio-tempo.
La mutazione appare, in questo modo, la parte visibile e più importante; mutazione come collegamento tra interno ed esterno, estremo.
La mia ricerca è questa: la menzogna che si insinua in uno spazio eterogeneo e poco accomodante;
proprio come un gene danneggiato, che neghi ed accetti nello stesso momento. Cercando uno scopo intrinseco nell’istallazione stessa che si tenta di mettere in atto, forse forzando il concetto sotteso, si può definire in pochi passaggi di status, sia simbolici che fisici.
Lo scopo dell’installazione è la disappropriazione e la rinuncia alla “paternità artistica” dell’opera e alla visione della distruzione dell’”aura” che aleggia attorno al contesto, all’opera stessa e all’operato dell’artista.
La dinamica principale è lo scardinamento del processo artistico non ponendo barriere tra l’artista e il pubblico, che si confondono, come in un transfert psicologico, data la forma didascalica di tutta l’operazione che ne compromette un facile collocamento nella mente del fruitore e attraverso i piani ontologici.
Le radici sono state tolte per dare spazio e forse inizio a qualcosa di itinerante e liquido, dinamico e senza punti fermi.
Quando azzeri ogni forma, stile e dinamica precedenti puoi avere la possibilità di dare atto ad un nuovo processo mentale e fisico; anche la totale distruzione 

dell’opera stessa in quanto priva di ogni barriera aulica.
Il processo stesso supera l’opera finale e ne nega l’esistenza.

Lo statement dell’opera è contenuto nell’opera stessa.
Dal momento in cui la realizzazione e l’installazione sono state completate ho fatto un gesto di rinuncia alla proprietà dell’opera venendo meno a tutti quei meccanismi di autenticità, indirizzamento, collocazione e univocità del significato stesso dell’opera.
L’opera è di tutti, quindi di nessuno.

Enrico Finazzi

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